lunedì 18 marzo 2013

Insoliti Incontri


Erano le ventidue circa e mi trovavo a Trastevere. Fra le luci fioche della stazione dei treni vidi partire l’ultima corsa dell’autobus n.3, l’unico contatto su ruote gommate fra la Roma trasteverina e la zona dove avevo casa. Lo vidi partire, e provai rabbia. Più tardi avevo raggiunto Roma termini con un treno atteso fin troppo alla stazione di Trastevere, in compagnia di un vispo signore indiano di mezza età. Mi si era avvicinato mentre, mosso da non so quale speranza, cercavo conferma sul tabellone degli autobus che il n.3 effettuasse l’ultima corsa proprio alle ventidue. Informai di questa notizia l’indiano appunto, il quale anziché andarsene e ringraziare per avergli risposto, mi disse: “E ora come torni a casa?”
Avrei voluto rispondere qualcosa del tipo “fatti i fatti tuoi”. Risposi invece che avrei preso il treno, e da quel momento non riuscii più a togliermelo di torno; d'altronde non mi era di impiccio, anzi, per un po’ alleviò il mio fastidio per aver perso l'ultimo autobus. Mi parlò della sua attività in india di commerciante di camicie, di come il lavoro era andato male ed era venuto in Italia dove si occupava di qualcosa di imprecisato che aveva a che fare con gli orologi. Non chiesi i dettagli.
Quando parlava, principalmente inglese, mi toccava spesso per enfatizzare quello che diceva, e si avvicinava fin troppo con il suo volto al mio, una cosa che odio. Poi ci teneva a sottolineare alla fine di ogni frase, quanto l’India fosse valida economicamente, quanto i bambini indiani fossero ben istruiti e di quanto funzioni bene l’università in India. Mi venne in mente la mia classica domanda “che mette al muro”: <perché se l’India funziona così bene sei venuto qui a rubare orologi?>
Ma generalmente non mi piace umiliare le persone ne metterle in difficoltà, così evitai. Scese alla stazione di Tuscolana lasciandomi nelle orecchie l’eco della sua voce cantilenante che mi ricordava Peter Sellers in Hollywood Party, ed un lieve appiccicaticcio sull’ultimo punto dove mi aveva toccato per salutarmi, dicendomi “God Bless you”.

Marcello D'Onofrio - estratto - 

2 commenti:

  1. Scrivere è uno sfogo liberatorio della mente, una pacificazione di anima e di cuore. Anche in un incontro casuale, come quello qui sopra descritto, può restare un interrogativo d'indefinita curiosità o di giudizio, un bisogno di far ordine nel pensiero: due righe tracciate su un foglio di carta, poi la distensione... magari in un sonno tranquillo

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  2. Verissimo, tante volte scrivere risulta il miglior rimedio a quella irrequietezza che non si sa nemmeno da dove viene, eppure c'é.

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