lunedì 3 marzo 2014

Una stanza

Ogni pomeriggio, alle quindici, la stanza prendeva vita.
Non come ci si immaginerebbe che una stanza facesse sotto l'influsso di una qualche magia o una soprannaturale forza, no, la stanza era viva di una silenziosa e discreta vita che si lasciava intuire. 
Mi si rivelava, pian piano come una brutalità che però conoscevo, che avevo imparato a conoscere eppure - ogni pomeriggio quando il pendolo di legno segnava le tre - mi inchiodava alla poltrona.
Dovevo restare immobile, funzionava così, non dovevo essere scoperto vivo perché immaginavo che non stava bene che uomini e cose avessero vita nel medesimo istante; stringevo i braccioli della mia poltrona mentre sentivo l'aria della stanza farsi pesante e ogni oscillazione della lancetta dell'enorme orologio a muro emulava il ritmo di un grande cuore meccanico che tornava alla vita. Ero solito chiudere gli occhi a quel punto perché io, uomo vivo, non sopportavo di vedere palesarsi la mia stessa virtù in quegli oggetti: percepivo il fremito statico che animava le tende e i drappeggi che schermavano la luce del primo pomeriggio, ne assorbivano la calura e me la vomitavano addosso con prepotenza. 
Ed io immobile nella mia poltrona.
Poi era il turno della carta da parati con le sue figure che, pur restando nell'ordine impresso da chissà quale stampatrice industriale, si svolgevano e si susseguivano nelle loro tonalità ocra di penombra e sfilavano intorno alla mia poltrona in qualcosa che interpretavo come a metà fra il beffarsi di me e un circolo totemico nel quale io ero il loro sacrificio. 
Ed io immobile aggrappato ai braccioli.
La parte più terrificante era senza dubbio quando anche i mobili esuberavano la loro esistenza: cominciavano con dei sinistri scricchiolii fino ad arrivare ad un vero e proprio dialogarsi di legno antico e cere e stucchi e prodotti per le tarme che - fra di loro - si scambiavano i pareri su quello strano essere quale ero io che assistevo alla loro vita. Un dialogo nel quale io non avevo battute ed ogni frase echeggiava con sfacciata insistenza fra le pareti della stanza e a qual punto ogni singolo oggetto ne prendeva parte: era certo la massima espressione di quella follia che si prendeva gioco di me, immobile sulla poltrona.
Nell'istante che il grosso pendolo batteva le quindici e dieci, tutto finiva; nessuno si sarebbe potuto accorgere di quel mutamento e nessuno avrebbe notato nulla, nessuno tranne me che - ogni giorno, immobile sulla mia poltrona - assistevo all'aberrazione della vita della stanza per dieci minuti.
Quando poi il campanello suonava, poco dopo, anticipava l'arrivo del mio psicoterapeuta, tale Dott. K. Gourges, che avrebbe camminato per una mezz'ora - come faceva ogni pomeriggio - nel mio salotto toccando i mobili, sfiorando le tende e rasentando la carta da parati, ignaro della vita che li aveva appena animati; e io, sempre nella mia poltrona, guardavo stupito senza dire una parola quell'uomo dai lunghi baffi grigi che non sapeva nulla della mia camera eppure veniva, diceva lui, per guarirmi da una cosa che chiamava schizofrenia.
Trovavo la cosa assurda.


Marcello D'Onofrio

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